31 luglio 2012

Olimpiadi

Otto anni fa, in un romanzo breve (qui testo integrale), facevo scrivere al protagonista una articolo sulle olimpiadi di Salt Lake City di due anni prima. Oggi probabilmente serve uno sforzo di memoria (o di documentazione) per capire tutti i iriferimenti, ma il senso mi pare continui a valere.

Parliamo delle olimpiadi americane. Le ho sentite definire squallide, rovinate, infangate, e in molti altri modi di simile tono, ma forse noi idealisti romantici dovremmo ringraziare queste olimpiadi di Salt Lake City. Dovremmo ringraziarle di essere state esattamente quello che sono state, cioè un’orrenda miscela di doping, truffe arbitrali e scorrettezze varie, dovremmo ringraziarle perché in questo modo ci hanno definitivamente cancellato la falsa illusione di uno sport pulito. Campioni olimpici per mezza giornata, campioni olimpici postdatati, campioni olimpici senza merito. Intendiamoci, io non ce l’ho con l’australiano che è diventato campione olimpico di short track sapendo pattinare appena meglio di me che non ne sono capace, lui aveva ogni diritto di partecipare, e non è certo colpa sua se gli altri si sono spintonati fino a finire tutti o fuori pista o squalificati, una tantum giustamente. E non è certo colpa sua se nessuno si è preoccupato di spintonare lui che era ultimo e staccato.
Forse sarebbe lui il simbolo più giusto di queste olimpiadi, più del norvegese che vince perché scia più veloce e spara più dritto di chiunque altro, ma che oramai non si può più fare a meno di chiedersi come riesca ad essere così superiore, specialmente dopo le squalifiche di tanti suoi colleghi, alcuni dei quali avevano vinto quasi quanto lui.
Ma allora in queste olimpiadi non resta proprio niente da salvare? No, io almeno una cosa la salverei e, non per fare il campanilista, ma è una cosa fatta da un’italiana, una fondista a fine carriera, che ha vinto tanto ma che ancora più spesso è arrivata seconda, ogni volta lamentandosi, a torto o a ragione, di esserestata battuta dai giudici, o da avversarie dopate, o dalla sfortuna che, a suo dire, ce l’ha sempre con lei.
Questa italiana ha corso la trenta chilometri, e alla fine è arrivata terza, battuta dalla seconda di quattro secondi dopo un’ora e mezza di gara. Per soli quattro secondi ha perso una medaglia d’argento che già si immaginava potesse diventare d'oro, visto che la squalifica per doping della vincitrice era nell’aria. Ma questa volta l’italiana non ha pianto nè accusato, questa volta è corsa incontro all’amica, anche lei a fine carriera, che l’aveva appena battuta vincendo la sua prima medaglia olimpica, e nell’abbraccio che le ha dato si vedeva che era sinceramente felice per lei.
Ecco, se potessimo credere che questo è lo sport noi romantici idealisti continueremmo ad amarlo, rifiutandoci di ammettere che ormai lo sport ad alto livello è solo un’industria tra tante, forse persino peggiore di tante. E allora grazie Muhlegg, grazie Lazutina, grazie ai pattinatori e ai giudici. Grazie per averci tolto questi dolorosi sogni.

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